inclusioni e esclusioni sociali
18 Mar 2016
Rosanna Liburdi

Inclusioni e esclusioni: l'individuo conosce sé stesso e si riconosce come essere umano?

Uno spettro si aggira per l'umanità: lo spettro della paura.
▬▬ Zygmunt Bauman ▬▬

Viviamo in questo periodo storico, situazioni dove termini come “inclusioni” e/o “esclusioni” sono nominati spesso, utilizzati, a volte forse, abusati.
Queste sono due parole che inevitabilmente evocano all’interno di noi, delle nostre esperienze, della nostra memoria strane emozioni facendoci sentire privilegiati oppure rifiutati, abbandonati o scelti a seconda delle condizioni sociali e dei ruoli che ricopriamo nei vari contesti.

Partirei come è mia consuetudine dall’analizzare il significato dei termini oggetto di questo scritto.
Parlando di “escludere” secondo un qualsiasi vocabolario della lingua italiana, troviamo che il verbo si riferisce a “estromissione, chiudere fuori, lasciare al di fuori, non ammettere e scartare”.
La parola “includere”, d’altro canto, è il “chiudere dentro, comprendere in un gruppo, implicare, racchiudere”.

Oggi come oggi, sappiamo bene che i pensieri ai quali volgiamo l’attenzione con suddetti concetti possono riguardare il discorso dell’immigrazione di popoli provenienti da paesi provati da conflitti e povertà; l’aperura o la chiusura di frontiere controllate a vista; così come ci si rivolge all’uguaglianza dei diritti per le coppie di fatto, la procreazione assistita omologa, eterologa per coppie eterosessuali o omosessuali e così di seguito.

Temi, quelli citati, di grande attualità e di interesse sociale che a mio avviso, rischiano però di allontanarci dagli stessi problemi oltre che alienarci come soggetti, divenuti “inesperti” nell’ individuare ciò che vogliamo veramente e avendo una insofferenza per il rispetto del tempo che la fa da padrone purché sia bruciato o inesistente per l’attualizzazione di ciò che pretendiamo di avere, al contempo che venga, sempre il “tempo”, dimenticato, posticipato, negato o dilatato laddove rappresenti un elemento di disturbo perché ci ricorda che siamo esseri viventi con un inizio e una fine, inseriti in una esistenza che ha regole, paletti, limiti spesso al di fuori del nostro bisogno di controllo esasperato.
Il tempo vissuto che ha un ritmo personale di ogni coscienza che può attribuire ad un minuto cronologico un tempo ristretto, finito o infinito, esistito, esistente o immerso nel nulla.

Mi viene in mente che il semplice fatto, a livello individuale, di essere incluso in un qualcosa a cui sono interessato di far parte, desiderare e sentirmi accettato piuttosto che non, già questo fatto ribadisco, mi sembra ampiamente sufficiente per cercare di comprendere come spesso le persone si possano sentire emotivamente e percepirsi a livello introspettivo profondo e in rapporto con gli altri.
Insoddisfatti? Inadeguati? Frustrati?

La società si muove in massa e segue dunque degli usi, delle abitudini che nulla hanno a che vedere con gli aspetti disposizionali di una persona, bensì con gli aspetti situazionali. Come in diversi testi hanno sottolineato autori quali Phil Zimbardo, Albert Bandura e Gian Vittorio Caprara.

A volte se ci riflettiamo, è adeguatamente trascurabile una variabile in gioco in una data circostanza, per far sì che ci si possa comportare o assumere atteggiamenti a dir poco riprovevoli. Una tale considerazione, mi chiedo, può essere riferita all’essere inclusi o esclusi? Che cosa detta e chi, la possibilità che le nostre azioni siano parte di qualcosa che abbia a che fare con la società, oppure no?

Riflettendo sui termini, a me sembra che realisticamente si ripeta la storia del “potersi sentire riconosciuti” in quanto esseri umani e nelle situazioni che viviamo quotidianamente e questo sin da quando veniamo al mondo.
Esser-ci” e non essere. Conoscenza di sé per poterci prendere cura di un nostro Io che si identifica con noi ma che purtroppo ci appare come se ci fosse sconosciuto, lo percepiamo distaccato da noi stessi e affaticato, addolorato; di conseguenza questo nostro Io rimane bloccato in una impossibilità alla nostra stessa esistenza.

Ecco che si affaccia dinanzi a noi un paradosso: conosciamo tanto di noi individui, ignorando al contempo ogni cosa di questo nostro Io che sfugge persino ai progressi delle neuroscienze. Ancora una volta siamo inclusi in meccanismi scientifici che tutto raccontano di noi ma che ci lasciano fuori dalle spiegazioni dello stesso oggetto di studio.

Far parte legittimata di un gruppo, non riguarda per esempio, forse anche un gruppo di adolescenti e lo scottante tema del bullismo?
E questo “far parte”, come lo si deve intendere?
Così ancora, far parte di una ideologia politica o culturale e non percepire alcuna differenza in nome di un’uguaglianza dove il “tutto” e il “nulla” divengono la stessa cosa confluendo nel Kaos con-fuso e non creativo dell’esistere, è essere inclusi o esclusi?

A volte è sufficiente “deindividuare” una persona, ossia come spiega Bauman, spogliarla della sua unicità, immergerla in gruppi e metterla in uniforme, come gli altri dello stesso insieme, e disumanizzare il nemico che in quel momento e contesto specifici assumeva originariamente il ruolo di persecutore e aguzzino, oppure vittima rassegnata e passiva di un sistema nel quale è entrata a far parte e il gioco è fatto nel senso che non si pensa a cosa si agisce ma si procede agendo ciò che il gruppo, nel quale si è inclusi, fa, ossia mette in atto.

D’altro canto, se non sono incluso in quel gruppo e dunque ne sono fuori, non è detto che abbia rispetto per chi sono, per i mei bisogni, non è scontato, in buona sostanza che sia consapevole di ciò che sto vivendo per scegliere la cosa migliore e adeguata a me.
Insomma essere inclusi e/o esclusi socialmente, probabilmente acquista poco potere per una efficace risoluzione di problemi che la collettività vive laddove ci si dimentica che il soggetto è nel mondo, un esserci che vive, dunque “è” ma smette anche di esserci perché muore e semplicemente smette di esistere.

Ciò che sto cercando di esprimere è che, a mio avviso, sarebbe importante poter distinguere il bene dal male. Eticamente esistono azioni compiute in modo buono e azioni compiute in modo cattivo. In tal senso, la consapevolezza dovrebbe vestire l’abito di protagonista, tanto per cominciare l’avventura del vivere e sentirsi “inclusi”.
E tutto questo non è così scontato che sia parte del “chiudere dentro” o dello “stare fuori”.

Affermerei che suddette definizioni, sembrano facce della stessa medaglia che spesso ci allontanano dalla possibilità di analizzare i problemi che ci affliggono a livello personale e sociale.
A tale proposito desidero aggiungere che in questa disamina mi sto riferendo a qualcosa che Vittorino Andreoli definisce come “disturbi della normalità” un’area di interesse di studio che per molti autori si sta estendendo a macchia d’olio senza che le conoscenze psichiatriche o psicologiche riescano a trovarne completamente un senso.

Per ogni individuo conoscersi, comprendersi profondamente e saper dire di no, perché sta scegliendo di essere ciò che è, sarebbe di sostegno considerevole per sé stesso e nella relazione con l’altro da sé, per sviluppare una empatia in nome di un bisogno di coerenza interna.
Forse questa esplorazione profonda che ognuno di noi può fare, consentirebbe il sentirsi incluso nel senso di sentirsi accettato per come essa/esso è, senza, peraltro avere i falsi bisogni di riconoscimento, agendo i tanto modaioli “outing”.

Continuo la riflessione sul pensiero della parola “no” che sembra limitarci;
in realtà, il “no” delimita chi siamo, delinea i nostri confini che esistendo, consentono una nostra tutela e contenimento ed anche lo sviluppo di una nostra individualità e identità.
Inoltre, andando oltre quei stessi limiti, ci caratterizza come persone in grado di scegliere, trasformando così quelli che ci appaiono vette insormontabili, risorse sulle quali poter contare perché sono parte di noi, peculiarità della nostra struttura di personalità; soprattutto sono aspetti unici di noi stessi che ci caratterizzano in quel determinato modo, aiutandoci a sentirci, riconoscerci; essi diventano, in altri termini, aspetti funzionali per il nostro agire, per le nostre scelte

Se solo riuscissimo a cogliere in ciascuno di noi l’essenza di ciò che siamo come esseri umani che esistono, modificando stili di vita che sono, per la frequenza statistica, visti come “normali”, facenti parte del sistema, inclusi socialmente e dunque accettati.
Invece, a onore del vero, la stabilità con i quali essi ci appaiono sono solo l’abitudine che ci illude di emozioni quali possono essere la gioia, la felicità, e che se ci ribellassimo a questi cliché forse allora potremmo operare dei cambiamenti, delle evoluzioni personali che in modo naturale ci farebbero entrare in contatto con una visione del mondo estensibile ad un “noi”. Un Io non più ripiegato su sé stesso ma allargato ad una visione comprensiva anche dell’altro.

Le diversità, il considerarsi per ciò che siamo, unici, ci permetterebbe un ulteriore arricchimento in quanto esseri che se diversi, possono non solo riconoscersi ma essere visti e riconosciuti dagli altri.
Allora ci si può incontrare e scegliere.
Si può accogliere e accettare ciò che non si conosce o che si riteneva nemico perché alcune differenze, quelle che ci rendono caratteristici in un modo piuttosto che in un altro, ci possono avvicinare, rendere curiosi e vivi di percepirci in rapporto all’altro da me, in nome dell’esserci nel mondo piuttosto che in antitesi, ossia essere nel nulla.

Guardate il sole sovrano, così pacato e superbo,
I mattini di porpora e viola, le brezze che fiutano appena,
La tenera luce infinita che nasce così dolcemente,
Il miracolo che si diffonde, che tutto asperge, il pieno meriggio,
La sera che cala soave, la notte benvenuta, le stelle,
Che brillano tutte sulla mia città, che avvolgono uomini e terre.

▬▬Whitman▬▬

Rosanna Liburdi

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  • Non dovrebbero forse questi dolori antichi diventare finalmente fecondi per noi?    ▬ Rainer M.Rilke
  • Ogni preoccupazione sull’idea di cosa è giusto o sbagliato rivela uno sviluppo intellettuale incompiuto.     ▬ Oscar Wilde
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