Seminari
15 Set 2014
Rosanna Liburdi

Le parole che narrano.
Noi stessi ne siamo la musica.

I racconti non sono sicuramente innocenti: hanno sempre un messaggio, il più delle volte così ben nascosto che nemmeno il narratore sa quale interesse stia perseguendo.
▬▬ Bruner, 2002 ▬▬

Introduzione
Questo articolo fa parte di un insieme di appunti, in totale quattro, frutto di riflessioni personali e osservazioni che avvengono grazie alla mia professione, il mestiere dello psicoterapeuta - psicoanalista.

Un'arte che mi concede la possibilità e, senza falsa ridondante retorica, l'onore di incontrare e accogliere storie di vita di persone con le quali lavoro per comprendere che cosa accade nelle loro menti, nelle relazioni con gli altri.
Incontri reali, con persone vere, a volte con patologie molto serie, a volte con situazioni di vita conflittuali meno severe, non per questo meno sofferte.
La narrazione nell'incontro con i pazienti è tutto e non si può non comunicare.
Anche con il silenzio, con i gesti, con il cosiddetto non-verbale parliamo di noi al mondo esterno.

Invito alla lettura, per chi fosse interessato, dei capitoli precedenti che sono in ordine cronologico e facilmente individuabili. Così come invito a lasciare commenti.
Doveroso da parte mia, ricordarvi che i contenuti trattati sono pensati per chiunque sia interessato all'argomento senza alcuna pretesa di analisi strettamente scientifica.

La mission di Consulenza Clinica è le "Persone al Centro".
Trovo utile quindi, a volte, scrivere anche di argomenti per divulgare la cultura della mia professione con serietà ma in modo descrittivo e chiaro per informare e condividere conoscenza, a maggior ragione se l'argomento trattato è la narrazione!
Grazie per l'attenzione e buona lettura. Rosanna Liburdi

 

Con questa ultima parte, il nostro viaggio sta per giungere al termine.

Fine.
Una parola che non piace molto per il significato che assume; spesso, addirittura può spaventare, troppe immagini o ricordi potrebbe evocare questa semplice parola che esprime un punto dal quale non si torna indietro, inequivocabilmente irreversibile e di segno negativo.
Ricordate il vecchio mobile abbandonato lasciato nella stanza vuota?

La speranza, invece, e' che in tale contesto essa potrà rappresentare, per ognuno che ha seguito i diversi appuntamenti, un nuovo inizio.
Ogni cosa inizia e finisce, nasce e muore.

Dopo il giorno sopraggiunge il tramonto e successivamente la notte e poi di nuovo l'alba e di nuovo il giorno.
I bambini lo sanno bene per tenere a bada per esempio l'angoscia delle prime separazioni dalle figure genitoriali quando vengono "lasciati" a scuola.
Cuccioli che apprendono un rituale del "ora sono qui, gioco ... ma poi mamma, papà torneranno a prendermi! Non sto qui per sempre. Torno a casa dopo."

Una diversa strada, dunque, da percorrere per gli spunti di riflessione che via via sono stati stimolati dalla lettura dei tre capitoli compreso quest'ultimo.
Abbiamo iniziato a discorrere sul come ci si può sentire bloccati di fronte a dei conflitti.
Mi viene in mente un incontro avvenuto di recente nella mia stanza di analisi dove una persona con la quale lavoro per la prima volta si è concessa la legittimità di proteggere se stessa e la sua identità, mediante il riconoscimento dei suoi veri bisogni e finalmente raccontarli tra se e se; a me e a noi; nella relazione con il mondo esterno reale.
Da troppo tempo narrava di se in un modo contratto, come se fosse davvero inverosimile e complicato trovare le parole giuste per definirsi e per descrivere ciò che voleva. Poco tempo fa essa è stata pronta ad uscire dall'impasse che la intrappolava in un tunnel senza vie di uscita, buio e spaventoso.

Le emozioni più evidenti erano paura, angoscia. I sentimenti di vergogna e inadeguatezza abbondavano. Per non parlare dei sensi di colpa ogni volta che tentava di "emergere" come individuo vivo che sente di essere tale.
Potrei descrivere la sofferenza di una persona che ha subito un lutto e un abbandono del suo oggetto di amore a distanza di un mese dalla morte del suo genitore.
Una persona smarrita nella solitudine, con-fusa con il vuoto assordante che ora riempie la sua esistenza. Quegli occhi che guardavano sgranando le orbite, fissi e bloccati che le impedivano di vedere e anche di farmi vedere quanto fossero belli (un verde brillante intenso) raccontavano di questi vissuti.
Essa non sta ancora bene ma non è più chiusa nella sua stessa morsa di sofferenza, piuttosto, la sua mente giovane e creativa è in movimento e comincia a desiderare la conoscenza di se, a sentire tutto il vuoto rumoroso delle perdite subite e piangere per queste, continuando a vivere per quanto dilaniata dal dolore.

Vi parlo di una persona ritenuta depressa che mutacica, si definisce a monosillabi fredda, incapace di "sentire" emozioni.
E mentre "non" parla del suo stare male non teme che io veda le sue lacrime silenziose ed eloquenti scorrere sul viso. Il volto mi narra un se diverso cominciando ad avere un colorito, una forma espressiva che prima, personalmente non coglievo.

Era brava, oh...se era brava a nascondersi. Metteva dei cartelli con su scritto keep off warning, niente male.
Sono stata lì con lei, accettando i miei limiti, ad attendere i suoi tempi, a rispettare la sua storia di vita anche nel rispetto di me stessa-come persona. Perché se il mio ruolo è chiamato ad avere una relazione asimmetrica con i pazienti, dal punto di vista umano, esisto e sto in relazione con l'altro in un campo, il setting analitico, che è appunto bi-personale, dunque in una relazione simmetrica. Il rapporto che si viene a creare non è finzione, il tanto declamato "come-se" (che, fra l'altro corrisponde anche al mio modello teorico di riferimento), si riferisce a qualcosa di più complesso ma non è questa la sede di discussione di tale argomento.

Il rapporto paziente-terapeuta è reale con regole precise per quanto riguarda la professionalità (codice deontologico annesso), con emozioni, sentimenti personali che esulano a volte dalla stessa psicoterapia ma che possono essere "utilizzati" dall'analista, in modo intelligente all'interno della stessa se il professionista sa che cosa sta facendo teoricamente e tecnicamente e non se ne spaventa. In altri termini, in primo luogo, egli stesso, dovrebbe fare un lungo percorso di conoscenza di se.

L'empatia non è qualcosa che banalmente si acquisisce "mettendosi nei panni dell'altro", "come se ...".
C'è quel concetto della "distanza ottimale" che può essere oggetto d'interpretazione, peccato troppe volte viaggiando su polarità completamente opposte.

Avviene qualcosa durante l'ascolto di una storia che può lasciarci incantati, disincantati, disarmati, infastiditi, senza parole, stupiti, delusi, schifati, nauseati, incuriositi, scioccati, basiti, sorpresi, felici, fieri, orgogliosi, commossi, esitanti, eccitati, tristi, allegri, annoiati, interessati.
Tanti aggettivi per descrivere un caleidoscopio di emozioni che posso "sentire" Io-terapeuta e non necessariamente solo come prodotto del contro-transfert (e' sufficiente girare lievemente il meccanismo dello strumento per trovarci di fronte a forme e colori del tutto diversi e multiformi) ma come appartenente a Io-persona che evidentemente non riesce a "stare" in quella relazione.

E che facciamo con l'altro che narra di se?
Che ce ne facciamo di ciò che suscita in noi quella narrazione?
Ascoltata e/o scritta che sia?
Secondo alcuni autori, raccontare, in fondo, permette proprio di dare un senso alla fatica di vivere. Ci sono storie però che non riusciamo a narrare, le abbiamo per esempio rimosse. Di fronte a quelle storie si può restare senza parole, o con una valigia stracolma che appena seduti la persona ci racconta a fiume ma apparentemente senza un filo logico, vuote di significato.

"Si può essere incapaci di narrare per molte ragioni: perché sembra non accadere nulla o perché accade troppo" scrive Bruner.
Ognuno ha la sua storia da raccontare e che gli piace raccontarsi in funzione delle relazioni e del contesto in cui è inserito. Ma in ogni caso sono La Storia di quell'individuo e come tale va ascoltata e rispettata.
D'altro canto scrivevo altrove una persona quando si reca in terapia si presenta con una storia che conosce e che vuole raccontare, una parte che conosce ma attende perché non vuole svelare al mondo esterno e un'altra parte di storia che è sconosciuta anche alla persona stessa ma che insieme al suo analista potrà co-costruire.

C'è un tempo per ogni cosa, ognuno ha i suoi tempi e la capacità di narrare dovrebbe avere questa possibilità di "distendere il tempo".

Invece oggi come oggi la narrazione trova ostacoli non di poco conto: la velocità degli eventi del mondo; la scienza; l'informazione.
Troppe volte ultimamente, mi ritrovo a confrontarmi con scrittori e/o Editor soprattutto di articoli destinati al web che mi richiamano al concetto di "tagliare". In modo provocatorio mi diverto, a volte, a ribattere che è un po' difficile per uno psicoanalista "abituato" ad analizzare le menti nel profondo fino all'inconscio, "tagliare", che cosa? Le parole? I concetti? Perché?
Siamo d'accordo che l'essere sintetici e' competenza affascinante e complessa, che la quantità non è affatto sinonimo di qualità. Ma la narrazione, il raccontare di se stessi, il riportare storie o descrivere ricerche scientifiche in dieci-quindici righe vorrebbe dire, a mio avviso, contrarre e/o velocizzare i tempi dell'altro; interpretare a proprio modo con una logica deduttiva e/o induttiva (del tutto errate nella mia professione) il pensiero dell'altro; non ascoltare attentamente il racconto, la storia che ci viene con fatica narrata.

Ecco dunque una rincorsa verso un qualcosa d'indefinito che non ci fa vivere secondo i nostri reali bisogni, piuttosto assecondando quelli degli altri.
Per un quieto vivere, per pigrizia, per falsa tolleranza siamo disponibili a non fermarci neanche un attimo per ascoltare dentro di noi risuonare l'eco dei nostri pensieri che annunciano sogni, desideri. Non ci fermiamo a leggere e/o ascoltare racconti, discorsi più lunghi di quanto oggi la società post-moderna imponga pur di rimanere "in" e non sembrare "outsider", perdendoci però la possibilità di espressione di ciò che siamo, di chi vogliamo essere.
Antonio Damasio scrive in tal senso: "Noi esistiamo come esseri mentali quando è soltanto, vengono raccontate storie primigenie [che definiscono il nucleo del primo Se]; finché è soltanto finché, queste storie vengono raccontate. Finché la storia dura, noi stessi ne siamo la musica" (1999).

Concludo questo interminabile ed ultimo capitolo con la riflessione su uno scritto di Conrad, citando Bruner:
"L'ospite segreto si presta a diverse avventure [...] Perché il capitano prende Leggatt a bordo, lo nasconde, mette a repentaglio la sua reputazione dando ricetto a un criminale? [...] Che cosa rende così irresistibile un "ospite segreto [...] - Il mio ospite segreto ... Un uomo libero, un magnifico nuotatore che fuggiva lontano, verso un nuovo destino".
Io che sono un lettore, non saprò mai perché Conrad mette queste ultime parole in bocca al giovane capitano.
Ma così sono le code.
Abbiamo superato Esopo: la grande narrativa e' un invito a trovare i problemi, non una lezione su come risolverli.
E' una profonda riflessione sulla situazione umana, sulla caccia più che sulla preda" (2002).

Cerchiamo di trovare la forza di esprimere chi siamo, il coraggio di esplorare con curiosità i nostri bisogni e desideri e non teniamoli segreti, chiusi in un baule abbandonato in una casa che verrà chiusa e lasciata da chi l'abitava. Penso valga la pena provare a vivere l'avventura di conoscersi e raccontarsi al mondo e/o ascoltare le storie del mondo perché l'esistenza di ciascun individuo è legittimato ad essere autore, protagonista, regista della propria storia.

Rosanna Liburdi

articoli di Psicologia
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  • La mente che si apre ad una nuova idea non ritorna mai alla dimensione precedente.    ▬ Albert Einstein
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