Le relazioni che perdono
01 mar 2015
Rosanna Liburdi

Le relazioni che perdono.

Per vivere con onore bisogna struggersi, battersi, sbagliare e ricominciare da capo e buttare via tutto,
e di nuovo ricominciare e lottare e perdere eternamente.
▬▬ Lev Tolstoy ▬▬

Penso alle relazioni che nascono, legami indissolubili quando incontri un essere umano sulla strada della tua vita, innamorandotene come in un lampo a ciel sereno o piano piano, ponderando bene ogni particolare e allora i giorni che corrono, offrono l'occasione meravigliosa di conoscerlo sempre più quel l'essere amato.

O meglio ancora, di conoscersi sempre più, insieme, stando nella relazione.
Scoprire cose che ci piacciono dell'altro e cose che non ci piacciono affatto.

Ci chiediamo come è stato possibile che proprio a noi sia capitata una cosa del genere, troppo bella per essere vera. Ne parliamo al mondo intero e al contempo, a volte, nutriamo una strana emozione, la paura. Paura che tutto presto o tardi finisca. Quell'incanto che si desidera urlare dal ponte di una nave in mare aperto e tenere anche custodito segretamente perché non si sa mai.
In fondo chi ha conosciuto l'abbandono proprio questo teme e lo porta con se ovunque vada nel mondo, nel suo sguardo, nel suo modo di osservare gli altri, nel modo in cui usa le parole.

Arriva anche quel giorno in cui tutto finisce come quando, messa su la tua musica preferita, dopo un po' termina la melodia e la puntina sul disco in vinile continua a girare a vuoto; o se preferite, se si tratta di un moderno cd invece, rimane il fermo immagine del videoclip o il silenzio improvvisamente assordante del vuoto, che l'essere rimasti soli, ci lascia frastornati senza appello a cui rispondere.

Perché? Perché deve andare proprio così? E proprio a me?

Voglio dire le cose iniziano e finiscono è vero, ma un legame no, il significato, la memoria di esso no: i rapporti interpersonali rimangono perché rimane come un marchio a fuoco di fabbrica (alta qualità, garanzia DOP) l'affetto per quella persona. Almeno così dovrebbe poter essere un affetto.
Sono in piedi e guardo oltre la finestra.
Relazioni

Le note dal pianoforte escono come i ricordi che si rincorrono nella mente e volano liberi nell'aria ma sono anche dentro di noi. Nel bene e nel male. Esse, le memorie, ci hanno segnato facendoci crescere e maturare costruendo felici qualcosa oppure ci hanno addolorato perché hanno solcato istanti della nostra vita disperatamente angosciosi e sofferenti. In un disegno tuttavia che non è così netto come sono ben visibili i tasti bianchi e neri del pianoforte dal quale escono i suoni. Le esperienze sono complesse, non bianche e/o nere.

Mi guardo intorno e ultimamente ciò che osservo sono l'aumento delle relazioni che si interrompono come di colpo e senza alcuna possibilità di riparo dal danno subito. Non mi riferisco solo alla morte. Da li non si sfugge, irrimediabile fenomeno a noi incomprensibile, per lo più inaccettabile intensamente traumatico perché doloroso, inspiegabile (personalmente non ho mai conosciuto scientemente qualcuno che mi abbia narrato del suo essere stato morto!).
No, descrivo la fine di un amore, di un'amicizia per un tradimento, per un torto subito e quando accade ciò, non c'è punto di ritorno. Emotivamente ci aggrapperemmo a qualunque cosa sia lì a sorreggere per un attimo il peso del mondo che ci sta precipitando addosso.
Fisicamente si rimane scioccati e anche irremovibili; semmai aumentano nella mente una serie di costruzioni rappresentative di immagini, colori, ricordi, pensieri, idee che andranno solo a rinforzare con vigore quella scelta. Scelta? Bisogno? E di chi? Di chi viene lasciato o dell'altro, quello che ha lasciato?

Inizia un altro percorso quello offensivo. Ormai la verità dell'altro è fra le nostre mani e sappiamo bene come, dove e quando colpire. Qualunque sia la parte che la vita-regista ci abbia riservato.
E si rimane soli.
E non vogliamo sentirci soli. Perché dunque andare verso l'offensiva?
Perchè subirla?
Qualcuno dice: evidentemente non era amore. Oppure: superficialità di rapporto, incapacità di stare con l'altro.

Tutti termini e concetti che conosco bene, che capisco altrettanto chiaramente ma che non comprendo perché mancano di parole che cerco nelle relazioni, come gentilezza, tolleranza, umiltà, curiosità, fascino, desiderio, sostanza, avventura, libertà, tenerezza, stupore, passione, rabbia, confronto, sguardo, profondità, intensità, istanti, intimità, magia, scoperta, fierezza, affetto, gratitudine, bene, volere, speranza, sorriso, tempo, emozione, terra, nascita, crescita.
E in figura nel ruolo di primo attore, "forse", "forse".

Forse è coraggioso quell'uomo, compagno di una signora malata gravemente che egli ama ancora oggi come il primo giorno che l'ha incontrò, occupandosi di lei, tutta lei comprese le voci immaginarie circolanti nella sua testa. E lei quando reclama la sua presenza forse più che di dipendenza, descriverei la persona come imbrigliata nella consapevolezza che ad oggi l'unica persona che le ha donato e le dona affetto è lui, il compagno e lui soltanto.
Chiaramente sto descrivendo una persona con un quadro diagnostico ben preciso dove anche il disturbo dipendente di personalità occupa, un buono spazio a livello sintomatologico considerato che si tratta di una signora prigioniera di allucinazioni uditive che invadono la sua mente, che ha vissuto abusi precoci e l'anaffettivita' delle cure parentali le hanno "regalato" ad un certo punto della sua vita una franca frattura psicotica di tipo positivo (da DSM IV). Eppure, le risorse di questa donna poggiano su una relazione affettiva autentica, sana, costante che le ha garantito, seppure solo un minimo, una coesione di se.

E noi che cosa ce ne facciamo di tutte queste parole? Esiste un modo che può migliorare il nostro stare in relazione con l'altra/o?

(L'argomento segue con una seconda parte che sarà pubblicata fra qualche giorno)

Dobbiamo abituarci all'idea: ai più importanti bivi della Vita, non c'è segnaletica.
▬▬ Ernest Hemingway ▬▬

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