Anime perse nei loro labirinti di parole.
Il mio Essere psicoterapeuta usando il linguaggio del paziente.
[...] come far sgorgare dagli abissi della nostra interiorità le parole,
le fragili parole che curano? [...]
▬▬ Eugenio Borgna ▬▬
Per me ogni cosa può parlare.
Penso spesso al fatto che nella mia stanza di analisi la sera, quando chiudo lo studio, restano soltanto le parole e che al di là dei loro contenuti, sono i modi con le quali le persone si presentano a loro stessi e agli altri usando un linguaggio piuttosto che un altro ad essere importanti.
Soprattutto quello speciale modo invece che un altro.
Una stretta di mano (personalmente saluto così i pazienti al loro arrivo), i gesti, i silenzi, gli sguardi, le espressioni del volto, le posture e tanto altro ancora non verbalizzato, sono comunque parti delle parole pronunciate che determinano con forza la relazione terapeutica sia in positivo, sia in negativo.
"Non so da dove incominciare per spiegarle come mi sento e perché sono qui"; "Mi ero preparata/o un discorso nell'aspettare l'incontro di oggi con lei, e ora che sono qui, non trovo più le parole giuste, è strano" |
Spesso, quando ascolto frasi di questo genere vedo persone avvolte da intense emozioni come per esempio il sentirsi perse nella tristezza e nell'angoscia profonda, o nella vergogna o in una sorta di disagio come se la scelta di una parola all'interno del discorso, preparato o no, potesse essere quella determinante affinché io-terapeuta comprenda esattamente ciò che vive quella persona descritta con quelle parole e in quel modo, piuttosto che un altro.
Ciò che riscontro è benché empaticamente colga le emozioni che attraversano la stanza di analisi nel breve viaggio compiuto dalla mente del paziente alla mia, non è per nulla scontata la capacità dell'altro di saper riconoscere di che cosa si stia parlando.
Come se soltanto io, in quei momenti, riuscissi intuitivamente a cogliere il significato per entrambi. Eppure la narrazione e il modo è stato scelto dall'altro. O forse sono stata scelta io? E in caso allora vorrebbe dire sapere essere, stando lì?
"Ti vedo", questo desidero trasmettere ai pazienti che si rivolgono presso il mio studio o sono già in cura da me. Vedo le loro parole cercate faticosamente per esprimere una minima parte delle loro emozioni, quelle di cui sono consci; le parole che essi ritengono "giuste" per raccontarsi in quel momento senza svelare troppo di se, semplicemente rispettando i loro tempi.
Vedo e colgo le parole, proprio quelle che secondo loro, rappresentano quel dolore profondo che li ha condotti fino a me nonostante magari la convinzione che mai, si sarebbero rivolti ad un'analista a cui riporre la loro vita spezzata, sofferta, confusa, inutile da vivere, angosciata
Vedo e ascolto queste parole scelte a fatica e meticolosamente spesso incongruenti con ciò che osservo disegnato sui contorni degli stessi volti che si raccontano.
Smorfie accennate con la bocca, tensioni sui muscoli facciali, teste inclinate, o fieramente voltate altrove, arrossamento degli occhi gonfi di lacrime che non possono e non vogliono scendere perché questo è il dictact storico ricevuto, ma loro, disubbidienti e silenziose scivolano giù, tracciando sottili linee trasparenti che si asciugano spontaneamente parola dopo parola.
Desidero pronunciare "ti vedo" e ascoltando empaticamente l'altro, si appaga quel desiderio che rappresenta già a livello bi-direzionale un mettersi in sintonia con il bisogno della persona che si presenta con una richiesta di aiuto.
Lo tsunami della sofferenza arriva, permeando la stanza di analisi ma non succede nulla di drammatico. Tutto rimane stabile, compresa me, compreso il paziente. E questo è l'inizio di una nuova esperienza percepita appieno dalla persona.
C'è qualcuno che sentendo, ascolta, accoglie, comprende, capisce e non traballa, non giudica, non affretta conclusioni; piuttosto sospende ogni tipo di azione per ascoltare le parole e costruirne un significato del tutto nuovo, in questa nuova esperienza vissuta insieme.
Significati che non tralasciano il mondo emotivo e l'affettività.
La relazione è la base sicura dalla quale ripartire.
Ripartire perché noi già siamo. Ci siamo.
Capitano quelle giornate un po' così. Così e basta dove anche solo trovare l'aggettivo giusto che le possa descrivere, sarebbe un'impresa straordinaria che comunque non renderebbe semplice e chiaro quelle parole uniche e agevoli come il "così e il basta".
In quelle giornate mi sembra che le parole facciano delle capriole intorno le nostre menti paziente-terapeuta avvitandosi su giostre da capogiro, fluttuando nella stanza così come vogliono, con mille significati possibili, improbabili, ipotetici, impensabili e via discorrendo. Allora ciò che posso fare è ritornare a "quel così", lasciandomi cullare dai racconti stessi e guardando le persone che li narrano. E loro, iniziano a guardare me.
Lascio che quelle parole possano giocare anche con me magari danzando ed entrando in me. Come se per pochi attimi il tempo potesse fermarsi e il racconto delle loro storie divenisse tutt'uno con i due presenti nel qui-ed-ora nel luogo un po' magico e certamente protetto che è il setting terapeutico.
"Magico" perché unico e irripetibile.
Comincio a quel punto a comprendere il linguaggio che usa il paziente e il modo in cui lo usa. La sua stessa lingua la posso parlare anche io così come mi è concesso ascoltare le sue emozioni.
Le interpretazioni prendono gradualmente forma dandomi il permesso di entrare nella stanza dei segreti dell'altro. Bisogna procedere con cautela considerata la liquida ambivalenza tipica delle parole, nella loro plasmabilita' perché il rischio che si corre è rimanere pietrificati nell'indifferenza o anche come opposta polarità, salvare dalla linea d'ombra, dal mare in tempesta e dall'angoscia e disperazione.
La giostra termina il giro e smette il suo vorticare all'impazzata perché il sentimento prende potere e il senso lo si ritrova come se in un passo di danza a due non ci si calpestasse più i piedi e il movimento, ora, seguisse la musica e il ritmo e il tutto divenisse sotto qualunque sguardo esterno ed estraneo all'esperienza molto più di una semplice unione di due persone che danzano (o si raccontano?).
Ogni cosa può parlare. In un tuffo esse entrano nell'acqua cristallina di una storia sconosciuta intorpidendola, forse.
Ti restano quelle parole incontrollabili che hanno attraversato vie impervie, fatte di tragitti inquieti, buii e ombrosi.
La nebbia, il disorientamento, il tormento di cui una persona può essere afflitta è solo la prima velatura della cipolla con la quale chiede aiuto.
Nel gioco degli scacchi I primi a muoversi saranno i pedoni che possono procedere di uno, due caselle al massimo; lo psicoterapeuta se accetta di giocare, deve saper leggere la differenza di quei tempi e spazi, prevedere, comprendere il "senso della mossa" per il quale seguirà un suo intervento soprattutto se vuole muoversi sulla stessa scacchiera facendo affiorare domande su domande sulla relazione paziente-terapeuta.
Le persone che si rivolgono a noi professionisti spesso sono confuse ma sono accompagnati ancora ed anche da una speranza sepolta, nascosta, in attesa, forse dimenticata. Loro, i pazienti pensano che sia tutto inutile. Però sono lì da noi, sebbene il pensiero, l'idea predominante sia "forse è meglio morire".
L'infinito Morire è paura del finito vivere.
Vivere soli. La stanchezza di sentirsi angosciati e non farcela ad affrontare i problemi che sembrano insormontabili.
Prendere in cura terapeutica (take care of) una persona vuol dire assumersi la responsabilità del proprio impegno professionale, serio e concentrato su ciò che si sta facendo.
Non ci si può improvvisare psicoterapeuti, esperti diagnosti (a livello nosografico, funzionale, descrittivo), clinici ed esperti di psicopatologia e psico farmacologia.
Essere in relazione con l'altro assume suoni melodiosi, suadenti ed anche stridenti, stonati, insomma il pacchetto è preso per intero, per quello che "è".
A tal proposito, seguire ciò che ci appare "seduttivo" è giusto all'inizio, per creare alleanza terapeutica ma non significa che tutti possono svolgere questo mestiere sia dal punto di vista della competenza, sia dal punto di vista delle conoscenze, dei titoli necessari per Legge, delle peculiarità e della personalità che designeranno quello specialista unico nel suo modo di essere.
Scrivere anche di questo vuol dire spiegare ai pazienti come possono essere tutelati oltre che aiutati realmente perché la psicoterapia ha un inizio e una fine come tutte le cose del mondo.
Inizia il giorno, finisce al tramonto e lascia spazio al nascere della notte.
Dopo la tempesta, il cielo diventa sgombro di nubi e piano piano inizia il sereno grazie ai primi raggi di un sole che fa capolino all'orizzonte.
Esistono il ciclo delle stagioni ed esiste qualcosa come l'incontro tra una persona che si rivolge stanca e spaventata ad un terapeuta con una domanda di aiuto e sulla quale potrà essere aiutato, forse.
Personalmente ritengo che prendersi cura di un paziente voglia dire anche ri-creare quella relazione che recuperi in un qualche modo la base sicura inesistente nel paziente. La sua incapacità di mentalizzare o le falle esistenti di riflettere sul proprio Se.
Esserci non vuol dire creare un rapporto di dipendenza, vuol dire stabilire alleanza basandosi sulla relazione di fiducia reciproca.
La fiducia piena che ce la si possa fare, motiva il cucciolo di uomo di età quindici mesi circa, ad esplorare l'ambiente circostante, promuovendo la propria autonomia in un legame inter-soggettivo. In modo analogo, nel processo psicoterapeutico, esserci vuol dire esplorare ciò che è stata la propria esistenza fino a quel momento del paziente, rispettando con cura la personalità che ci troviamo nel setting e prendendoci "cura" facendo leva sulle parti sane della stessa, affinché un giorno la persona possa salutarci e andare fuori nel mondo a viversi pienamente come meglio desidera la propria.
Il tentativo qui, in questo scritto, è solo di descrivere in modo chiaro e colloquiale ciò che penso del mio lavoro analitico, usando le parole, giocando con esse, nella relazione con i pazienti senza dimenticare che il mestiere dell'analista è una competenza specifica appartenente ad un percorso formativo ben preciso comprensivo di laurea (corso completo), percorso di analisi personale, tirocini, iscrizione all'albo o società psicoanalitiche (se si è all'estero) e specializzazioni quadriennali post-laurea, comprensive di costante supervisione.
Non vi è altra possibilità per saper prendersi cura di una persona dalla diagnosi al trattamento fino alla fine del suo percorso di analisi per la promozione della sua salute psicofisica.
Le improvvisazioni, le chiacchiere pseudo psicologiche le lascerei agli amici che si incontrano e si sentono più sensibili di altri ad ascoltare problemi (a parte, forse i propri). Bene.
La professione dello psicoterapeuta è altro.
Così come riguarda altro fare psicologia o counselling.
Cura di una persona, dal punto di vista mentale, è appannaggio esclusivo dello psicoterapeuta e dello psichiatra per la farmacologia.
Poi se quest' ultimi siano professionisti in grado di svolgere il loro mestiere con competenza, passione e umanità è altro affare, sebbene punto importante e dolente al contempo. Le persone devono stare bene. Soprattutto se intraprendono un percorso psicoterapeutico.
Cambiamento significa conoscenza e cura di se stessi ed è ciò che deve accadere in un processo analitico.
Il rigore lo metterei, come già scritto, nella formazione e nelle competenze che ognuno di noi deve acquisire come requisiti che ci definiscono idonei e abilitati all'esercizio della professione.
L'aspetto umano, l'empatia innata, la capacità di "stare in relazione con" le lascerei a caratteristiche che sono parte di quell'essere psicoterapeuta che è proprio lei/lui e non un altro.
Detto in altri termini ciò che discosta dalla media.
Ciò che fa della relazione paziente, coppia, gruppo, - terapeuta la differenza in termini qualitativi.
Penso che la promozione della salute e il futuro della nostra professione dipendono fortemente da questo connubio di conoscenze e presenza profonda, umana verso noi stessi, con noi stessi e la nostra vita privata e nella relazione nel mondo e il nostro relazionarci con i pazienti, ossia usando le parole, fossero pure solo frammenti o silenzi ancora più eloquenti, le attese e sospensioni ogni elemento che ci riguarda in quanto esseri umani capaci di comunicare pensieri e emozioni.
[...] Le parole a loro (i pazienti) necessarie sono quelle che riescano ad essere un ponte fra la soggettività di chi cura e quella di chi è curato; ricreando, così, la misteriosa alleanza terapeutica fra l'una e l'altra soggettività [...]
▬▬ Eugenio Borgna ▬▬
Riferimenti Bibliografici
Freud S., Opere 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino, 1989.
Galimberti U., Dizionario di psicologia, UTET, Torino, 1992.
Heidegger M., Essere è tempo, UTET, Torino, 1969.
Kundera M., L'identità, Adelphi, Milano, 1997.