Mi fermo. Il viaggio ha inizio!
La crisi, i tempi contratti, vissuti senza respiro, esaspera, a volte, le relazioni con gli altri, con i bambini o con i vecchi sembra anche più facile. Scrivo queste righe mentre sono seduta tranquilla su una panchina, un po’ scomoda a dire la verità, per aspettare che mia figlia finisca la lezione di danza. Generalmente porto con me da leggere. Oggi sono distratta dal pianto di una bambina che è ripresa, sgridata, strattonata, tirata, da una signora giovane che parla con un tono di voce alto e autoritario, si muove a scatti e ha un comportamento piuttosto sgradevole. Non penso si stia divertendo. Non penso sia una persona malvagia, maleducata o che so io. Penso sia una giovane mamma in difficoltà. Certamente da non poter giustificare il suo comportamento, almeno per quello che mi riguarda, ma in difficoltà.
Sono solita osservare ciò che accade intorno a me e noto spesso una strana ambivalenza. Se da un lato c’è un’incapacità, un grosso conflitto in noi nel dire “no” ai propri figli e proprio per questa problematicità gli si risponde con distacco, irritazione, mancato ascolto, queste reazioni comportamentali sembrano darci, d’altro canto, maggiore forza per auto affermare una regola che preveda per il suo stesso rispetto il confine del “no”. Come se la gentilezza e la severità insite nell’assertività di un sistema educativo tradizionale autorevole mancassero necessariamente di amorevolezza.
Il “no”, dunque, pronunciato con chiarezza inequivocabile, paradossalmente può sembrarci duro da pronunciare.
Se invece, fosse mantenuto perché salvo dai canonici sensi di colpa che lo spazzerebbero via, sarebbe registrato, soprattutto dai bambini come un contenitore di sicurezza, un luogo dove potersi rifugiare domani perché scevro da falsi o doppi messaggi. Come a dire: le cose stanno così! Una bambina di circa cinque anni, un giorno mi disse, dopo vari minuti di capricci urla e pianti, con la mamma che lei non capiva perché la regola non le era stata detta con un semplicissimo “questo no, è vietato farlo”. Senza aggiunta di parole che la confondevano e le facevano stancare il cervello. Ora, a parte la raffinata intelligenza di quella bambina, il suo messaggio era piuttosto chiaro. Erano gli adulti a non tenere testa nella comunicazione e relazione con lei.
Infatti, i passi avanti e indietro, conditi di buone dosi di tentennamenti ansiogeni, insicurezza quanto basta (che i figli fiutano immediatamente identificandocisi), suscitando anche sensi di colpa e angoscia di abbandono alla peggio o di rifiuto (come se fosse meglio) ci conducono su una strada tortuosa, piena di dossi, con false mete perché gli indirizzi non sono appuntati chiaramente e le mappe per quanto satellitari sono solo degli strumenti che hanno bisogno di essere di essere ben utilizzati.
Dipende da noi.
Quanto incide oggi il momento che stiamo vivendo di crisi economica, occupazionale, politica dove tutto sembra aggiustarsi e invece no, errore. Continua, la crisi continua a comporre fratture profonde nella vita delle persone (interessante ossimoro per alimentare la confusione).
Osservo volti di mamme (e di papà) stanche che sole devono combattere battaglie non so bene contro chi e per quale causa quando semplicemente tirano dietro un passeggino, o tengono un bimbetto per la manina. Semmai ispirano tenerezza e mi chiedo quanto deve essere faticoso sentirsi, ritrovarsi soli a fare tutto. Perché soli? Separati? Famiglie di origine non disponibili perché chilometri di distanze lontane o perché poco interessate a dare supporto? In fondo l’hanno fatto per una vita, ora anche in qualità di nonni?
Ecco allora che fare i genitori risulta, nella società attuale, complesso perché generare figli comporta fatica e rinunce … i figli. È davvero questa la rinuncia che non siamo disponibili a fare oggi? Perché vogliamo tutto? O perché non riusciamo a separarci da ciò che abbiamo? Sembra la stessa cosa ma non è propriamente così. Posso volere tutto per ingordigia oppure posso avere tutto perché ho paura di “far lasciar andare le cose”, di “perderle”, di “scegliere”. Illusioni di sicurezza, illudendoci che la felicità, e questa società ce lo ha inculcato ben bene, sembrerebbe misurarsi sull’avere e non sull’essere.
Come mai non possiamo fermarci un momento e cercare di capire a cosa saremmo disponibili rinunciare per una buona qualità di vita? Si, rinunciare, dunque sottrarre non aggiungere. Soddisfazione di bisogno per sottrazione e non aggiunta di qualcosa.
Forse potremmo sembrare degli alieni e francamente messi in discussione dalla maggior parte dei conoscenti se il nostro comportamento si modificasse un po’, quel tanto che sarebbe sufficiente come base di partenza per iniziare a riconoscere ciò di cui veramente abbiamo bisogno; quali tempi della giornata inseguiamo faticosamente senza neanche capirli ma controllando meticolosamente le lancette dell’orologio perché il tempo è infarcito di cose da fare, di compiti da assolvere, per sentirci all’altezza di, per essere come chi, e così di seguito.
Non è una questione di pregiudizio. La tecnologia, il progresso in questa società post-moderna rappresenta il passaporto per andare avanti, per procedere nell’ambito della scienza, per sconfiggere malattie (prodotte spesso dagli effetti dello stesso progresso), per procedere insomma nella vita. La vita che cosa è in fondo se non una serie di piccoli passi che non vanno fatti a caso (ci pensa “lei” stessa a riservarci sorprese negative e/o positive).
Possiamo sperare nel controllo. Sperare se coscientemente cerchiamo ogni giorno di essere chi siamo. Tutto ciò implica cosa? Doversi fermare ogni tanto e ascoltarsi mentre ascoltiamo il mondo che ci circonda.
Immaginate di stare seduti (come sono io ora mentre scrivo) e trovarvi in una stanza tipo sala d’aspetto con un interessante andirivieni di persone. Curioso il fatto che siamo seduti in silenzio, s i l e n z i o (recentemente un’ultima trovata per il business è stata quella di aprire in pieno centro nella città di New York, un ristorante dove il must è quello di consumare i pasti in completo silenzio. Vietato parlare. A parte scambio di sguardi e/o di piccoli gesti). Dicevamo, siamo seduti in silenzio e osserviamo. Scopriremo presto di poter catturare lo sguardo su di noi e se noi a quel punto guardiamo, a nostra volta quella persona, essa stessa, presumibilmente indirizzerà a sua volta, con curiosità il suo sguardo nelle stesse direzioni verso cui noi rivolgeremo il nostro.
I bambini fanno così … come facevamo del resto anche noi da bambini perché noi siamo stati bambini e siamo figli.
Quante volte riversiamo le nostre tensioni, difficoltà, confusione, senso di colpa sull’altro con aggressività fosse pure misurata e comunicata fra le righe?
Se ci fermassimo a guardare gli occhi di fronte ai nostri e ascoltare ciò che vediamo. Se ci fermassimo un momento a guardare con interesse l’ambiente intorno a noi, sapremmo individuare ciò che desideriamo ora per noi stessi? Saremmo in grado di notare lo sguardo dell’altro dove è posato e seguirlo con il nostro, incuriosendoci?
Se davvero non abbandonassimo una cosa alla quale teniamo tanto, cosa accadrebbe? Siamo certi di volere costruire e non abbandonare ciò cui teniamo?
Di che cosa ho bisogno? Cosa mi piace? Mi sento legittimato a riconoscere ciò che mi piace? Ci ricordiamo il piatto preferito di quando eravamo piccoli; o cosa ci piace mangiare oggi? E ciò che detestavamo di più? Gli odori, i colori, i suoni li potremmo recuperare dai nostri ricordi? Magari qualche evento particolare, che so io, del Natale. «non venivano festeggiati a casa mia».
Una volta mi è stato risposto da un uomo. Bene, e come ci si sente oggi a ripescare quel ricordo riportando la memoria lì nella casa del passato? Ed ecco fiorire un mondo di emozioni e una storia narrata nella storia.
Esplorando chi sono e come siamo davvero solamente una piccola parte di un’immensità che cambia permanentemente, forse, potremmo scoprire che non è stata colpa nostra.
Posso perdonare e perdonarmi. Posso apprendere a riconoscermi e a volermi far riconoscere o immaginare come gli altri da me mi riconoscono.
Con semplicità posso apprendere a pensare le mie emozioni e sentire la mia mente e accettare la limitatezza che c’è di me in tutto questo; ma anche che frammento siamo nella completezza di un Universo stupefacente incommensurabile fatto di numeri transfiniti racconta Borges nell’Aleph.
Legarsi affettivamente, intrecciarsi con l’altro è sentire il proprio battito del cuore vivo è speranza, progetto per il domani … ed è paura. Paura di perdere irrimediabilmente tutto questo, strappato via crudelmente da una vita che non scegliamo di iniziare a vivere, apparentemente. Chi ce le da queste certezze?
Se mi fermassi un attimo non abbandonerei ciò a cui tengo tanto perché non ancora compreso se quello che sto vivendo è l’inizio che avrà una fine oppure è già una fine che anticipa semplicemente un inizio dove lo spazio e il tempo non hanno luoghi e modi di esistere. Così a volte la routine sembra rappresentare la soluzione, immediata a qualcosa di troppo complesso per il mio mondo interno. Vincerebbe la superficialità, il pressapochismo e l’illusorietà di una vita mortifera, né viva, né morta. Se inseguo un sogno poi ci credo, voglio sperare e desiderare che si realizzi.
Allora se non abbandonassi tutto questo per una volta che è me stesso accadrebbe forse che posso iniziare un viaggio verso la scoperta meravigliosa di me e lo spazio trova il tempo giusto; la delicatezza può incontrare uno sguardo e un sorriso mentre ascolto il suono di una melodia.
Le certezze non le abbiamo ma il dubbio alimentato dalla curiosa creatività, dalla vivacità intellettuale, dalla vita appassionata che vuole scoprire mondi nuovi, apre la nostra mente e può regalarci stati di serenità vissuti intensamente attimo per attimo.