Seminari
01 mag 2014
Rosanna Liburdi

La Psicoterapia: il Mestiere di “stare umana-mente” con le storie di vita.

Per i malati mentali, le parole hanno una vita propria, come la gente o gli animali.
Passare in mezzo alle parole è come camminare in mezzo alla folla.
Rimangono delle facce, delle sagome che si dileguano presto nel nostro ricordo, oppure vi si fissano, non si sa bene perchè.
▬▬ Marie Cardinal ▬▬

Dedicato a tutte le persone che sono venute nel mio studio per iniziare un percorso di cambiamento di se stessi con se stessi. Ho avuto l'onore di conoscerne tante, sempre diverse, uniche e per questo speciali. Ogni storia narrata è stata messa tra le mie mani come un libro da leggere con gli occhi e non solo.

Un tesoro inestimabile che mi consente di crescere ogni giorno nella relazione ed in interazione con ogni singola persona con la quale lavoro e in relazione con me stessa. La conoscenza è un processo interminabile, a maggior ragione l'analisi di se. Ciò non può spaventarci, può darci il senso di quanto siamo in grado di aprirci verso il mondo, sentendoci vivi, vivendo la vita.

"La prima volta che andai dallo psicoanalista, era sera, mi par di ricordare. Ma forse no, forse è rimasta la nostalgia di una di quelle sedute serali, in fondo al vicolo, ben riparata dal freddo, dalla gente, dalla pazza, dalla notte. Una di quelle sedute in cui prendevo coscienza di maturare, di venire al mondo. Si aprivano larghe falle luminose, la strada si faceva più larga, cominciavo a capire. La pazza non era più quella poveretta che andava a nascondere i suoi tremiti nelle toilette dei bar, quella che fuggiva da un nemico innominabile, che sanguinava per le strade, e sudava rintanata nella sua stanza da bagno. Non era più quella malata che rifiutava di essere toccata, guardata, che non voleva che le si rivolgesse la parola. La pazza stava diventando un essere tenero, ricco e sensibile. Cominciavo ad accettare la pazza, a volerle bene. Le prime volte, venivo nel vicolo per il solo motivo di farmi curare per un po' da un dottore che non mi avrebbe fatta internare. (Gli psicoanalisti non mandano i loro pazienti in ospedale, questo lo sapevo).". (Marie Cardinal).

Quando incontro una persona che chiede di entrare in terapia, mi domando quale sia la storia che ha da raccontare, il motivo che l'ha condotta da me. Se volessi essere un po' più precisa, mi chiedo anche perché io, perché proprio quel periodo della vita e non un altro e così via. Non vorrei complicare oltremodo la questione.

Successivamente, accogliendola con lo sguardo, l'ascolto, tutto ciò che scatta in me empaticamente, mi lascio seguire dalle fantasie sulla storia che essa desidera raccontarmi con un mio piccolo aiuto. Quando infine, intraprendiamo il viaggio psicoterapeutico, c'è una storia che la persona e io sappiamo esistere, quella che lei desidera tenere segreta alla coppia paziente – psicoterapeuta e che nonostante le resistenze, le difese che fanno reagire la persona fintanto che non si sente abbastanza sicura (di me in qualità di analista o di se stessa?) inavvertitamente la storia prende forma mediante il linguaggio "altro", "oltre le parole" quello dei gesti, degli sguardi, delle pause, dei silenzi, infine del discorso.

Tutto ciò diviene come una danza, un movimento a volte a passi lenti e leggeri, a volte i passi sono goffi o pesanti, altre volte a passi che tentano qualcosa ma tornano indietro.

Dalle narrazioni dei pazienti ho appreso, spesso, che all'inizio si sentivano rinchiusi come in un guscio nel loro universo. Alcuni altri scettici, altri ancora vestivano un vissuto di vergogna per quello che percepivano all'interno delle loro anime. Certuni mi descrivevano di ombre in movimento.

La domanda più frequente, in tal senso, era: "come posso parlare del fiume straripante che c'è in me? Quali sono le parole giuste? C'è una storia, la mia che non è degna neanche di essere vissuta … deve rimanere chiusa a doppia mandata, sebbene il dolore che sento qui, sia ormai insopportabile. Rumore, disordine, confusione, agitazione, mani che tremano, che sudano raggelandosi, labbra umiliate che si mordono, occhi spalancati che non vedono".

Sono del parere che oggi, noi analisti, dovremmo o possiamo consentirci di essere meno distanti e meno silenziosi nella stanza di terapia. Un nostro coinvolgimento (che fra l'altro esiste, in ogni caso e ne dovremmo essere consapevoli e dovremmo saper "reggere" alcuni momenti) un nostro coinvolgimento, dicevo, che sia più attivo all'interno del setting terapeutico, può rappresentare una gratificazione per il paziente. La persona che viene da noi per il trattamento può sentirsi più motivata e affidarsi a noi in modo diverso. Questo fenomeno non lo definirei in modo disinvolto e semplicistico transfert e contro–transfert.

[…] «La situazione duale della coppia paziente – terapeuta non può essere caratterizzata dalla sola soggettività del paziente e dalla presunta oggettività del terapeuta, ma da due soggettività in interazione» […] (J. D. Lichtenberg, "Mestiere e Ispirazione", 2008)

Noi psicoterapeuti e psicoanalisti dobbiamo avere, e qui uso coscienziosamente l'imperativo, le competenze, le capacità oltre che la volontà (in virtù della propria formazione), di metterci in scena con i pazienti per esplorare insieme ciò che ci presentano a partire dalla loro esperienza e dalla nostra disponibilità a lasciarci "entrare" dal paziente stesso. Ho spesso sentito dibattere durante seminari o convegni che noi analisti dovremmo acquisire la capacità di "entrare" nella vita del paziente grazie all'ascolto attivo e all'empatia creando l'alleanza di lavoro. Ovviamente contenuti teorici, questi, inopinabili.

La mia esperienza clinica mi porta a aggiungere a questi punti, una ulteriore modalità di essere in ascolto attivo ed empatici con il paziente che è quello di "stare"! Sì, "stare lì" con il paziente e "lasciarsi entrare dalla sua narrazione", proprio da quella storia che alla fine sarà sempre più svelata alla coppia paziente – terapeuta mettendola nel campo bi - personale, in quello spazio protetto e "transizionale".

In tal senso, io-analista mi comporterò mostrando al paziente chi sono e cosa mi interessa di più (e di conseguenza cosa è importante secondo i valori che riguardano la psicoanalisi stessa).
Condivido con l'autore T.H. Ogden la possibilità per un analista di essere vicino al paziente in modi che non sono considerati, diciamo così psicoanalisi ortodossa o comunque standard.

Per esempio mi è capitato di andare a far visita in ospedale a un paziente gravemente malato ricoverato in ospedale, rispettando la riservatezza e la privacy ma andandoci. Ho partecipato a un rito funebre della figlia di un mio paziente. Ho collaborato con le forze dell'ordine, in un caso di stalking piuttosto particolare, dove ho dovuto fare delle scelte ben precise a tutela personale e della paziente. Mi sembra scontato affermare (forse non lo è) che è opportuno essere consapevoli delle opzioni che in certe situazioni l'analista sceglie di operare, responsabilmente e con una buona aderenza alla realtà. Solo in questi casi, tali azioni diventano veri e propri interventi terapeutici non soltanto perché sono "umani", questi hanno un valore terapeutico anche perché diventano facilitatori di un lavoro psicoterapeutico sia conscio, sia inconscio, significativo.

Io – analista sono responsabile del mio comportamento, il paziente del suo. La responsabilità che sento nei riguardi dei pazienti non è nei confronti della "psicoterapia" tout court ma del benessere del paziente. Le persone si rivolgono a noi psicoterapeuti per essere aiutati a vivere la loro vita in modo diverso. Si sentono tormentati, oppressi da una serie di sintomi che non sono più gestibili tanto da condizionare fortemente la loro qualità di vita. Essi soffrono perché si sentono soli, perché percepiscono un senso di vuoto interno, di angoscia e/o disperazione. Possono cadere nel buio del sentirsi inermi e senz'altra possibilità o talmente spaventati da chiudersi a riccio come se fossero dei piccoli indifesi.

La nostra responsabilità richiama continuamente, a mio avviso, all'impegno personale e sociale, a una coerenza interna non perché esseri infallibili, anzi. Il punto è che al di la della fallibilità dell'essere umano, spesse volte ci si nasconde dietro questa specie di "spiegazione" (non saprei come altro definirla) per non stare fino in fondo con ciò che si è scelto di fare: l'analisi con i pazienti con disagio psichico o patologia mentale.
E allora ci sono le regole che ci autorizzano fino ad un certo punto a "stare" con i pazienti; c'è una rigidità del setting esterno (orario, onorario ecc.) che non tiene conto dei dati di realtà in cui viviamo; stessa rigidità nel setting interno (regole di relazione: distanza ottimale, saluto o non saluto, dare del lei o del tu ecc.) e poi, d'altro canto una infinità di violazioni del boundary seri che possono compromettere la salute della persona. In altri termini mi sto riferendo ai concetti di limite, confine e del significato poliedrico che essi assumono.

Tuttavia quando si lavora stando lì, nella stanza con la persona che si riceve in quel momento, si riesce a arrivare a sognare, pensare, sentire l'esperienza del paziente per raggiungere la finalità ultima di trovare insieme, in modo creativo il suo unico modo, la sua capacità di sognare le sue esperienze autonomamente.

Il linguaggio anche assumerà allora durante il processo analitico sempre più sfumature nuove e personali di quella coppia paziente – terapeuta, adeguato all'obiettivo di creare una comunicazione per se stessi e per gli altri corrispondente a ciò che si sente e si pensa. La comunicazione non confonde più ma dipana la matassa prima aggrovigliata, confusa; una comunicazione che comprende e che è ora fedele all'esperienza emotiva, senza modificare la realtà.

[Credits Immagine: Laura Iacovelli]
articoli di Psicologia
pensieri
  • Il paziente è il miglior collega che abbiamo.    ▬ Wilfred Bion
  • La mente che si apre ad una nuova idea non ritorna mai alla dimensione precedente.    ▬ Albert Einstein
  • Non importa se stai procedendo lentamente; Ciò che importa è che tu non ti sia fermato.    ▬ Confucio
  • Mutare se stessi spesso significa rinascere più grandi di prima, crescere oltre se stessi.    ▬ Viktor E.Frankl
  • La mia mente ha una sua mente.    ▬ Allen Ginsberg
  • Solo uno sguardo "prosaico" e di strette vedute potrebbe considerarci due estranei.    ▬ D.Grossman
  • Una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta.    ▬ Platone
  • Non dovrebbero forse questi dolori antichi diventare finalmente fecondi per noi?    ▬ Rainer M.Rilke
  • Ogni preoccupazione sull’idea di cosa è giusto o sbagliato rivela uno sviluppo intellettuale incompiuto.     ▬ Oscar Wilde
pensieri