Seminari
29 ott 2013
Rosanna Liburdi

Bambini e giovani sognanti. Fra insegnanti di frontiera e genitori in trincea!

Il 25 ottobre con il ciclo dell’Autorità Perduta si sono riaperti gli incontri serali presso la Libreria del Sole. Questa volta l’ispirazione sull’argomento è stato ideato grazie ad un articolo scritto da Massimo Recalcati “Maestri Riluttanti: Cari Professori non fate gli Psicologi!”.

Iniziamo dal titolo della nostra serata: “ Bambini e Giovani Sognanti. Fra Insegnanti di Frontiera e Genitori in Trincea”.

Un nuovo anno scolastico si è affacciato alla porta bussando un po’ sbuffante e affaticato dagli ennesimi cambiamenti legislativi, irrequieto ed entusiasta di entrare in scuole tirate grosso modo a lucido pronte ad accogliere bambini, ragazzi seguendo i diktat di ciò che si sa, si deve fare, con un minuzzolo lumicino di speranza con la fiammella che traballa ma ancora acceso.

Forse l’Istituzione è meno predisposta oppure è infiacchita, oggi come oggi, di esporsi con studenti che sono, affermiamo pure la verità, un po’ apatici, annoiati, poco reattivi ecc. e di entrare in relazione con famiglie che sono fortemente alleate dei loro figli. Ci mancherebbe altro, si potrebbe dire. Qualche intervento della serata è stato proprio di questo tipo. In fondo i genitori agiscono (appunto agiscono, a volte senza pensare) ciò che sia meglio per i loro figli.

In virtù di questi pensieri e di questi scambi verbali, all’inizio è stato complesso spiegare ai partecipanti che sicuramente è così: “I comportamenti dei genitori sono fatti per garantire il meglio ai loro figli”.

Il punto è che dipende che cosa s’intende per il “meglio”. In qualità di “bravo genitore” posso pensare di non mettere troppe regole restrittive perché mi si stringerebbe il cuore nel vedere mio figlio così triste. Certo questo modo di pensare, in realtà, non favorirebbe la crescita, la sua maturità. È difficile farci conti in termini emotivi -affettivi.
La riconoscenza sul piano educativo è qualcosa di non verificabile istantaneamente, né direttamente proporzionale alla regola. I risultati si verificheranno solo successivamente, avanti nel tempo e questo certamente non aiuta quei genitori cresciuti portandosi un’eredità pesante ossia, quella di un’educazione ricevuta troppo rigida.
A oggi, dunque, la polarità opposta incoraggiata da quello che la società del consumismo prospetta è “tutto e subito” non solo per i figli ma anche per i genitori privati quando erano loro stessi ragazzi di troppe cose.

Penso che molto più semplicemente i giovani abbiano tanto bisogno di sognare, di “sentirsi sognanti” come è nella natura umana.
Noi sognavamo. Giacomo Leopardi sognava l’Infinito e sappiamo perché.
Galileo Galilei ci provò a ubbidire al papà, ma era troppo curioso e affascinato dal sogno della scoperta per non mettere in discussione le teorie addirittura dei grandi del passato (Aristotele), non era per presunzione, semplicemente la passione superava di gran lunga tutto il resto.

Il paradosso della società attuale (fatta da noi stessi, non è una “cosa” che sta lì) è che la maggior parte degli adulti non hanno più idee, cercano di inseguire qualcosa che viene proposto, senza soffermarsi a pensare se è quello che vogliono davvero; cercano di inseguire non so, dunque quali sogni e tentano di dar loro una forma.
Il punto è: "i bambini e i giovani dove sono? Non sarebbe il loro spazio, questo? Perché glielo stiamo rubando?"
I figli vivono un presente, senza futuro, arroccati su una linea, border, con il rischio di un’identità diffusa, confusa, ambivalente, in una comunità che di comune ha ben poco. Una comunità sempre più individualista (nel senso peggiore del termine) poco soggettiva, piena zeppa di oggetti “usa e getta” che lascia spesso un senso comunque di vuoto e di solitudine.
«Hanno tutto e non sono mai contenti»; «L’ho accontentato su quello che aveva chiesto, ora ho diritto anche io alla mia vita!».

Torniamo un po’ sulla serata. I partecipanti, (gruppo numeroso, eterogeneo per sesso, età e professione, tanti insegnanti e non solo), hanno accettato il mio invito a rimanere in silenzio per diversi minuti prima e dopo avergli mostrato delle foto. Negli ultimi tempi si descrive molto l’importanza dell’ascolto, del sapere ascoltare, dell’ascolto attivo, dell’ascolto empatico e così via.

Prima ancora di poter ascoltare l’altro, ci sarebbe il passo di ascoltare se stessi e ciò implica la capacità del sostenere il silenzio. L’astinenza delle parole buttate lì nello spazio esterno, non curanti se saranno accolte, comprese, senza quindi comunicare niente. Sul piano educativo, direbbe il Prof. G. Bollea, non farebbe male insegnare ai bambini, di restare zitti, di parlare solo quando è dato loro il permesso di parlare o quando sono certi che l’attenzione che meritano è garantita. Il rispetto dei tempi, in altre parole.

Allenare al silenzio è un’esperienza arricchente, emotivamente impegnativa, fortemente eloquente per la propria anima e fertile per l’osservazione esterna. C’è il tempo, la concentrazione di guardarmi dentro me ed osservare poi, ascoltando anche con gli altri sensi, ciò che accade nell’ambiente costruendo nella mia mente un’idea, un pensiero, un’opinione basata senz’altro anche dalle esperienze passate, dall’estrazione socio-culturale, ed anche da quel momento di osservazione – ascolto – silenzio.

Vedendo il titolo della serata un po’ più da vicino, lo rappresenterei graficamente in questo modo:

C’è la famiglia. C’è la scuola. C’è un dentro e c’è un fuori. Un ambiente familiare e un ambiente esterno, estraneo. Separato dunque da una linea di confine. Il confine secondo il dizionario Devoto-Oi è una linea costituita naturalmente o artificialmente a delimitare l’estensione di un territorio o di una proprietà […]. ».

Disegnare un confine è fondamentale perché è il modo per avere qualcosa dagli altri: con il confine si ha uno spazio proprio dove stabilire le proprie regole, visibile anche dall’ambiente esterno, si ottiene il riconoscimento di una diversità altra da me. Il confine disegnato come un cerchio chiuso dai bambini di circa tre anni, permette comprendere al professionista che quel bimbetto comincia ad avere consapevolezza, l’idea della formazione dell’“Io”. Il confine consente di sapere dove inizio e dove finisco – dove inizia e finisce l’altro.

La questione, qualcuno presente alla serata, dice è che nel titolo ci sono insegnanti di frontiera e genitori in trincea. Perché queste definizioni?

Vediamo intanto di capire che cosa è una frontiera. Essa rappresenta, secondo P. Scarpi (La Fuga e il Ritorno) la fine della Terra. Andare oltre la frontiera era avventurarsi oltre il limite contro il volere degli dèi.

Oggi potremmo dire significa uscire da uno spazio familiare, conosciuto e rassicurante per entrare in territorio straniero, dell’incertezza. Che cosa centrano gli insegnanti con tutto questo? In accordo con M. Recalcati penso che l’insegnante si senta sempre più solo. Una solitudine (come spiega l’autore) che non riflette solo la sua condizione di precariato sociale ma anche di un’alleanza mancata generazionale con le famiglie. Si rischia di ridurre la passione per il sapere a pura routine curriculare, fatta di burocrazia intellettuale, conformismo e perché no strumentalizzazione.

Se il lavoro degli insegnanti sembra essere divenuto oggi un lavoro di frontiera, d’altro canto le famiglie si trincerano in alleanza con i loro figli; perché come mi diceva qualche mamma «ma noi cerchiamo di fare il massimo per loro»; «come possiamo difenderci da una società che detta regole di omologazione, di appiattimento?» e ancora «si, si può fare però è faticoso ogni volta dover dire di “no” e uscire come voce fuori dal coro». Eh già, è faticoso. E i nostri figli, i giovani che rappresentano il nostro domani, il futuro, loro non possono sognare. Forse possono illudersi o allucinare qualche sogno (aiutati magari da qualche acido). Possono senz’altro (così superano anche il conflitto del sentirsi accettati o di appartenenza) lasciarsi sedurre dal conformismo sterile che uccide le passioni, i desideri, la possibilità di riconoscersi in ciò in cui essi stessi aspirano.

La scuola segna, “traccia” l’uscita dalla propria famiglia. Recalcati scrive: «essa deve incarnare l’obbligo di lasciare la propria lingua madre o meglio l’obbligo di tradurre quella lingua in altre lingue […]. Quando si traduce una lingua in un’altra, avviene un “tradimento”. Metaforicamente lo trovo interessante. Le famiglie non sono in pericolo. È vero sono sempre più confuse nella società di oggi, a volte angosciate, entrano in stati di ansia ma quanto questi vissuti “di pericolo”, appena descritti, sono diversi rispetto a quelli degli insegnanti?

La contaminazione sana con l’altro, fatta di vicinanza e di incontri multiculturali, di confronti, di idee che si possono scambiare tanto da renderle concrete è un compito, una potenzialità, una risorsa che spetta, a mio modo di vedere, alla famiglia e alla scuola. Il bisogno è collaborare insieme, unire le forze.

Ritrovare la passione nel modo in cui si trasmette il sapere. Una professoressa di liceo è intervenuta usando un verbo che mi ha colpito: «cerco ogni giorno di affascinare i miei ragazzi. Devono studiare, si deve lavorare sodo ma io sento il bisogno e la responsabilità di acchiapparli e ho il desiderio di fargli passare i concetti che insegno fascinandoli». E mentre l’ascoltavo, mi veniva in mente un’immagine seduttiva, sensuale, morbida, materna. Era bellissima lei, mentre si raccontava; era bellissima lei come persona che ama, tra mille difficoltà il suo mestiere. Aveva affascinata anche me.

Confine, frontiera, trincea, limite è anche recinto. Dentro un recinto ci si può riparare e proteggere dalle intemperie naturali. Se una parte cede, vien giù il palo che contribuisce a formare quel recinto, si può lavorare affinché si ripari, si ricostruisca o si rinforzi la parte più fragile. E poi nel recinto e dal recinto si può entrare e si può uscire grazie all’uscio, al cancello. Fatta salva la consapevolezza della soglia, del limite entro il quale è possibile stare, oltre il quale si può varcare oppure no. In tal senso c’è la tolleranza che stabilisce una divergenza, una differenza, un disaccordo che può essere accolto, collaborando senza pregiudizio e ascoltando i propri e altrui bisogni.

Penso che le famiglie vadano supportate, penso che le scuole vadano anch’esse supportate per il semplice fatto che sono i luoghi dove i bambini iniziano la loro avventura di crescita, di maturità culturale, educativa e di autonomia.
Perché le famiglie e le scuole sono luoghi fatti di persone, i genitori e gli insegnanti con i loro bisogni, desideri, fragilità, timori che hanno e assumono il compito meraviglioso di accogliere, educare, dunque di trasmettere valori, amore, cultura ai giovani, il nostro domani.
Rendere autonomi i ragazzi significa insegnare loro a potersi ascoltare e scoprire chi sono, viaggiare nel mondo realmente o rimanendo in una stanza; usare la propria testa fatta di loro idee, di loro emozioni, con le loro passioni, con le loro idee, con i loro sogni non più sepolti dentro un cassetto, impolverati, dimenticati chissà per quale motivo, forse anche perché gli adulti non cedono il passo, perché gli adulti sono stanchi e rassegnati.

Giovani sognanti che senza timidezza osano e si sentono liberi di spiccare il volo.

articoli di Psicologia
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  • Non dovrebbero forse questi dolori antichi diventare finalmente fecondi per noi?    ▬ Rainer M.Rilke
  • Ogni preoccupazione sull’idea di cosa è giusto o sbagliato rivela uno sviluppo intellettuale incompiuto.     ▬ Oscar Wilde
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