Seminari
30 lug 2014
Rosanna Liburdi

Narrarsi per dare voce all'esistenza e l'inizio del cambiamento.

Uno psichiatra dovrebbe ricordare che forse impara di più leggendo Proust e Dostoevskij che un trattato di psichiatria, poiché tratta con una realtà umana che la letteratura illustra meglio.
Ma soprattutto, secondo me uno psichiatra deve imparare a scrivere, perché è possibile comunicare solo se si è capaci di narrare.
▬▬ Romolo Rossi ▬▬

dalla I° parte
[...] In questo caso caso per noi la questione sarebbe un po' più complicata visto che "abitare" un mondo e' il continuo intreccio temporale delle nostre vite l'una con l'altra e con l'ambiente che ci circonda e noi esseri umani ci rendiamo spesso inermi di fronte a tali esperienze. Non è forse così? [...]

 

Uhm, intreccio temporale della mia vita con altre vite e insieme con l'ambiente che è intorno a noi.
Le relazioni per intenderci. Come ci relazioniamo con "..."? O meglio, oggi, come più o meno consapevolmente entriamo in relazione con gli altri?

Se mi soffermo sulla parola "ora" per esempio, in questo momento che cosa sto facendo io mentre scrivo?
E come lo sto facendo?
Entro in contatto con i miei pensieri, le mie idee, forse conoscenze, insomma tutto ciò che alberga nel mio mondo intrapsichico e lo sto scrivendo, perché?

Forse "intendo", ho "bisogno", "desidero" esprimere all'ambiente esterno, in buona sostanza a chi leggerà quest'articolo, tali contenuti e ho scelto la narrazione scritta per partire dal mio mondo introspettivo e giungere a quello intersoggettivo.

Questo "oggi", il presente, in parte dipende anche dalle esperienze del passato, ciò che abbiamo appreso dall'esperienza, ciò che abbiamo vissuto anche se non ne siamo così consci, ed anche dai vissuti ed esperienze delle altre persone, quelle con le quali, oggi abbiamo, vuoi o non vuoi a che fare.

Affascinante il mistero del bisogno del sentirci "addomesticati" dalla vita e con la vita degli altri esseri umani o, più in generale, viventi.
Tutto ciò, rimanda all'origine del linguaggio, al bisogno di narrarsi per dare voce al nostro "Io" nella vana speranza di essere visto e riconosciuto. (Molte richieste esplicite di aiuto per l'inizio di una eventuale psicoterapia sottendono domande implicite di essere accolti e visti ovverosia ad un lavoro mirato sui confini dell'Io e dell'identità).

Tornando alla prima parte dell'articolo, alle nostre vite bloccate... certo che quelle ferite inferte somiglianti a qualcosa di mortale, forse causate da una sovrapposizione di cosiddetti "traumi", ci lascia inermi, atterriti, annullati e mortiferi. Un qualcosa, quest'ultima, che vaga più o meno vivente o morente annullata, ripiegata su se stessa e andante non si sa dove e perché. A pensarci bene neanche così conscia e stabile.

Il romanzo di M. Gramellini "Fai bei sogni", descrive in tal senso, addirittura un mostro Belfagor, all'interno dell'anima del protagonista orfano di mamma che sabota la sua esistenza, ma queste sono le difese per definizione, fra l'altro, inconsce relative ad una sofferenza che va ogni oltre limite, inimmaginabile.

L'autore scrive "Non so se in amore vince chi fugge, ma di sicuro chi perde rimane dov'è, immobile."

Mi ricorda l'immagine descritta nella prima parte dell'articolo, quella della casa lasciata chiusa per trasferimento. Ancora di più, quel vecchio mobile che rimarrà lì al buio, non più utilizzabile, vuoto al suo interno quando invece è pieno di ricordi. O illusioni? Di fatto, e' solo un mobile e non si ribella, non si rende visibile nella sua utilità e bellezza. Lascia che gli altri scelgano per lui.

Ancora, A. Einstein scriveva che " la vita e' come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti".

Muoversi è un'interessante parola.
Nella sua etimologia vi sono derivati di "moto", "motivo", "movimento e forma", ossia cambiamento e in senso figurativo poi, bellissimo: motivo, piccolo spazio di tempo.
Tra i verbi composti commuovere.
D'altra parte in inglese "move" e' anche definita una situazione che si sta muovendo ed è in processo di sviluppo abbastanza "da starci fino a".
Dunque abbiamo a che fare con un termine che richiama i sentimenti, il cambiamento e in tutto questo muoversi, questo kaos, si giunge ad un equilibrio, evidentemente interno.

Ciò che vive intorno a noi, quello che ci succede, ci tocca. C'è un filtro, una rete sottile, direi metallica, come gli antichi setacci per la farina, un filtro dicevo, attento alle emozioni, alle passioni che pare ci travolgano, a volte, proprio perché sfuggono al nostro controllo.

Perché sono intanto le relazioni con gli altri ad esserlo, la vita stessa a sgattaiolare dai nostri calcoli pre-occupanti qualcosa che non potremo mai sapere con certezza. Se siamo dentro la nostra vita, se ne siamo i Soggetti non possiamo uscire dai rapporti indenni, o indifferenti fosse anche quello con l'impiegato di "x" ufficio.

La nostra affettività si scontra con la realtà del mondo. Oppure, chissà, potrebbe "incontrarla" tale realtà. Non dipende solo da noi, in parte si. Siamo per esempio molto più addomesticati di quanto immaginiamo.

Reprimiamo spesso i nostri sentimenti, le nostre idee, solo per sentirci adeguati a quelle che sono le aspettative degli altri.
"Altri" che riteniamo persone importanti affettivamente nella nostra vita. Per non parlare della società.
La minoranza e' costituita ormai da chi cerca di non dipendere dal controllo, per lo più giudicante, dei codici culturali del gruppo cui si appartiene a livello di comunità.
Eppure quando parliamo di legittimità "dell'essere Io", da un lato si vuole cogliere la possibilità per ciascun individuo di realizzarsi, nonostante le proprie differenze individuali di razza, cultura, religione, sesso ecc. d'altro canto, non si può non tenere conto delle regole del rispetto di tutti e quindi anche dei principi dell'uguaglianza.

M. Marzano a tale proposito scrive: "[...] la vera uguaglianza è quella che riconosce e valorizza le differenze individuali, senza però negare a nessuno un accesso paritario ai diritti"

Non posso fare a meno di ricorrere a quelle che sono le mie esperienze quotidiane di clinico.
Ho scelto (in tal senso sono fortunata) un mestiere magnifico che mi consente di incontrare e intrecciare rapporti con altri esseri umani, sebbene con un preciso mandato.
Dove le storie di vita hanno libero accesso e dove il possibile "senso" lo si costruisce insieme all'altro, all'interno del rapporto che si crea analista-paziente, grazie alla piena facoltà di espressione autonoma degli affetti, delle emozioni, dei sentimenti.
Il punto e' che attualmente ciò che osservo quotidianamente nei pazienti e' un aumento esponenziale di una loro paura anticipatoria verso la costruzione di una progettualità.
L'incertezza del domani.

Con un valore aggiunto, l'impossibilità per molte persone (età media 35/50 anni) di riconoscersi in bisogni e desideri propri. Come se più la società sia aperta verso il nuovo (fenomeno degli ultimi anni derivato della globalizzazione) e abbia così varcati i confini, più ci sia uno strano fenomeno di oppressione dell'uguaglianza e/o tolleranza nei riguardi del diverso versus l'integrazione e un'espansione della confusione dei limiti che circoscrivono e contengono oltre che non permettere una sana individuazione del Se.
Il risultato? Lascio a voi le riflessioni e arrivederci con la III parte.

articoli di Psicologia
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  • La mente che si apre ad una nuova idea non ritorna mai alla dimensione precedente.    ▬ Albert Einstein
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  • Solo uno sguardo "prosaico" e di strette vedute potrebbe considerarci due estranei.    ▬ D.Grossman
  • Una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta.    ▬ Platone
  • Non dovrebbero forse questi dolori antichi diventare finalmente fecondi per noi?    ▬ Rainer M.Rilke
  • Ogni preoccupazione sull’idea di cosa è giusto o sbagliato rivela uno sviluppo intellettuale incompiuto.     ▬ Oscar Wilde
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